Il Principe Leone

Chi sei che usurpi quest’ora notturna e quell’aspetto imponente e marziale in cui vedemmo tante volte incedere il re di Danimarca ora sepolto? (Amleto, Atto I, Shakespeare)
Quando nacque Leone si decise che il primo figlio maschio della dinastia dei Leoni avrebbe avuto un nome altisonante, fondante. I parenti furono tutti d’accordo, poiché la sorte aveva riservato loro solo figlie femmine. Il rapporto tra i genitori di Leone non fu mai sereno e seppure questo felice evento placava momentaneamente le tensioni, i conflitti riesplosero drammaticamente quando il ragazzo entrò nella pubertà, in coincidenza con il declino della piccola azienda di famiglia e il suicidio di papà Leoni. Tre mesi dopo questo tragico evento Leone, in seguito alle insistenze dei parenti, decise di contattarmi.
A distanza oramai di venti anni da quel primo incontro rimangono pochi vividi ricordi. Un gruppo familiare iperprotettivo, preoccupato per quell’unico figlio maschio; l’atteggiamento di ritrosia di Leone, che dimostrava meno dei suoi quindici anni; la domanda d’aiuto che non divenne mai realmente esplicita, nonostante una serie ragguardevole di colloqui preliminari. Un atteggiamento difensivo cui più volte ci saremmo riferiti quando in seguito, di fronte al cambiamento, la reazione rabbiosa dovuta al narcisismo distruttivo induceva il ragazzo ad un tenace arroccamento su vecchie posizioni regressive. Così, ad esempio, se l’accresciuta consapevolezza dovuta al lavoro analitico spingeva Leone ad avventurarsi da solo in territori di là dal suo consueto raggio d’azione, questa nuova accresciuta autonomia suscitava le ire del ’Principe’ – termine con cui decidemmo di definire gli aspetti distruttivi appartenenti alla componente narcisistica della sua personalità – il quale pretendeva, senza ascoltare ragioni, di essere risarcito mediante la riattivazione regressiva di vecchi sintomi. I motivi per cui Leone si decise ad iniziare la psicoterapia consistevano in una penosa costellazione di sintomi quali la difficoltà a concentrarsi negli studi, l’angoscia che lo attanagliava quando si trovava ad affrontare situazioni nuove da solo, la sensazione di non essere padrone del proprio corpo, infine la paura di morire; oltre a ciò, sullo sfondo, una permanente penosa sensazione di smarrimento, inadeguatezza, insufficienza. La ricostruzione in analisi della sua storia, così come d’importanti aspetti del romanzo familiare, permise di individuare alcune notevoli caratteristiche. I primi anni di vita di Leone si erano iscritti nella memoria familiare con parole e immagini che ne facevano un evento straordinario, di dimensioni epiche. Alla nascita pesava cinque chili e non vi era zio che non avesse appeso la sua gigantografia in casa: tutta la famiglia ruotava intorno a lui e gli pronosticava un grande avvenire. Quando vinse un concorso per bimbi belli fu un’apoteosi. In quanto all’educazione le convinzioni genitoriali, appoggiate dal gruppo dei parenti, fecero sì che l’esuberanza infantile del piccolo Leone fosse repressa e colpevolizzata, così a sei anni viene iscritto in una scuola elementare dove insegna la zia materna, zitella, che potrà contenerne gli eccessi. La costante di avere parenti come educatori negli istituti frequentati proseguirà anche negli anni successivi, circostanza questa che da un lato lo responsabilizzerà eccessivamente, dall’altro alimenterà le sue fantasie di essere un privilegiato, un predestinato nella vita a conseguire qualsiasi traguardo. L’apice è raggiunto quando entra a frequentare il Liceo Classico ove mostra una certa attitudine per la scrittura e diventa l’allievo prediletto di una cugina del padre, insegnante d’Italiano. Ciò sembra confermare le attese di tutti i parenti e, naturalmente, anche quelle di Leone. Purtroppo non è tutto oro quel che riluce. Nel rievocare quei momenti Leone rivive dolorosamente la gran fatica che quell’impegno gli costa, talora la vera e propria angoscia che lo attanaglia quando, dietro pressioni dell’insegnante, deve leggere in classe delle poesie scritta da lui e dedicate alla madre. Il rapporto fusionale con la madre è profondo, imprigionato nella sua orbita, egli ne costituisce un fallico prolungamento narcisistico. L’evento traumatico legato al suicidio del padre incrementa questa idealizzazione, incrina la fiducia di Leone nella possibile funzione correttiva del mondo esterno e gli suscita dubbi sulla possibilità di identificarsi col maschile. Parlando del rapporto con la madre, egli si esprime con queste parole: “Con lei mi sento felice.. lontano da mia madre e dalla nostra casa il mondo mi sembra brutto”. Sono frasi che sembrerebbero descrivere il vissuto di un bambino di cinque anni.
Ecco il primo sogno che porta in seduta:
“In questo sogno l’atmosfera è simile a quella di altri miei sogni.. all’inizio c’è un clima di gioia fiabesca… di felicità… io ero in un villino ed era come se fossi sposato da poco… c’era una stanza al piano terra, grande, illuminata, con mobili antichi (il mio studio è al piano terra, la stanza è spartanamente arredata)… e c’era un postino… come se fosse venuto a portare qualcosa… una situazione bella, però strana… come se potesse finire da un momento all’altro… io era come se fossi… tipo hai presenti quei libri di favole per bambini?… ricordo che una volta comprai insieme alla mia mamma un libro con delle storie di topi che hanno una loro città con una loro tecnologia.. io era come se fossi un po’ come questi topini..”.
Leone trasferisce su di me l’idealizzazione materna, l’adesione passiva e indiscutibile al modello genitoriale. Nel tentativo di perlustrare il ‘buco’ analitico, al solo affacciarsi dell’ipotesi separativa dalla trappola materna, che gli impedisce qualsiasi identità, egli sembra ricercare un rapporto omoerotico che rinforzi l’identità maschile e gli permetta di contenere l’angoscia. Indubbiamente la morte drammatica del padre e il dormire nella stessa stanza della madre, ospitati dai parenti nell’attesa dell’acquisto di una nuova casa, non fanno altro che avvalorare la sua “fantasia masturbatoria centrale” (Laufer, 1986). L’imprevista quanto frettolosa frequentazione tra la madre e un fratello del padre di Leone, frequentazione che sfocerà in un’unione ufficiale, caratterizza un tratto del gruppo familiare che non può non influire sullo sviluppo psicosessuale del ragazzo e rendere inelaborabile il lutto per la drammatica e prematura perdita del padre. La sola presenza della madre infonde a Leone la vita, il suo sguardo ne fonda l’esistenza e il valore. La sua lontananza o peggio l’accoppiarsi con lo zio paterno è l’insicurezza totale, ontologica, è il panico. Un’angoscia che si accompagna ad un sentimento penoso di solitudine, vissuto come condizione spregevole e infine mortifera.
All’epoca in cui inizia la psicoterapia, Leone presenta sintomi da attacchi di panico insorti alla morte del padre che, se da un lato costituiscono l’aspetto più evidente della sua patologia, d’altra parte ne rappresentano solo l’aspetto più superficiale. La parte sommersa dell’iceberg sembra essere una complessa patologia borderline che si traduce, sia in una precaria immagine corporea con profondi sentimenti d’inadeguatezza ed insufficienza, sia in una notevole componente onnipotente. In particolare egli, che non è alto ma nemmeno tanto basso, poco meno di uno e settanta, si vede molto piccolo, un ometto, costantemente angosciato dal confronto con gli altri, rispetto ai quali si sente soccombere. L’identità personale e sessuale è quanto mai carente: “A volte mi sento scollare, sfaldare, ho la sensazione di non far presa sul terreno, di sbandare”. Per tutto il primo anno di psicoterapia i temi inerenti alla sessualità non sono minimamente affrontati, e se vengono anche solo abbozzati presentano caratteristiche angoscianti. Quando incomincia a tentare di avventurarsi in esperienze nuove ed adeguate all’età cronologica, cioè tenta di uscire dal suo arroccamento narcisistico per andare verso nuovi oggetti, la sbilanciata distribuzione delle energie interne provoca a Leone violenti attacchi di panico che, a volte, si tramutano in veri e propri incidenti fisici. Come quando, per corteggiare la ragazzina desiderata fin dall’infanzia, finisce con la bicicletta in una fossa profonda riportando un lieve trauma cranico. Con questo acting out Leone sembra rappresentare l’unica soluzione che trova, quando tenta di integrare il contenuto della “fantasia masturbatoria centrale” in un contesto sessualmente più evoluto.
L: Quando è arrivata l’ambulanza, mi ha portato subito via.. Ofelia è salita su con me e mi teneva la mano.. in quel momento ero felice
T: Eri felice?
L: La sentivo così vicina.. era tutta per me.. come se fossimo fidanzati..
Leone sembra sentirsi costantemente in pericolo di cedere a qualcosa che desidera ma che non può concedersi. Ipotizzando l’atto sessuale teme che questo lo danneggi irreparabilmente, di poter essere “intrappolato” all’interno di un corpo di donna. Tutto ciò lo porta ad apprezzare molto di più la masturbazione; la sua mano gli appare assai più desiderabile e sicura, la fantasia gli permette di ‘essere posseduto’ e possedere le ragazze che più gli piacciono. La presenza in Leone di una sorta di ‘modello energetico’, per cui egli aspira a sentirsi ‘carico’ e teme viceversa di potersi ‘esaurire’, riguarda sia la sfera sessuale che quella intellettuale ed emotiva. La mancanza di un vero e proprio spazio mentale, gli preclude un’autentica capacità di pensare ed induce in lui insofferenza per la propria mente e sfiducia nel proprio intelletto. Evidentemente egli non si sente titolare di una responsabile capacità di pensiero, questa è dislocata nella madre. Come potrebbe fare un bambino, egli sembra dire “tanto ci pensa la mamma” come se madre e figlio fossero titolari di un unica mente. L’acquisto di una nuova casa, dove vivere solo con la mamma, alimenta le fantasie di Leone, anche se la presenza saltuaria dello zio paterno, che il ragazzo scoprirà ben presto essere il nuovo compagno della madre, da subito definisce i contorni della tragedia e le caratteristiche inquietanti di un terzo che insidia ‘il Principe’.
“Ho sognato la casa dove abitavo prima… nel sogno io mi sveglio e ho sete, ma mia mamma non mi porta da bere, allora io, scocciato, mi alzo e vado a bere dal rubinetto del bagno… poi mi trovo nel laboratorio (il luogo dove il padre si è ucciso) una ruspa aveva scavato ed era andata giù per un metro buono.. nella fossa c’era dell’acqua.. e dei tubi.. come fossero condutture di fili elettrici.. c’era poca luce.. c’era mio babbo e pure Claudio (fratello del padre e attuale compagno della madre).. mio babbo era come se fosse un antagonista.. o un alleato.. si doveva saldare qualcosa che si spaccava..”
Leone, abbozzando il passaggio da una relazione narcisista ad una oggettuale, sembra provare a “disseppellire” l’aggressività; però mancando il legame libidico tra aggressività e affetto, teme di distruggere l’oggetto con la sua aggressività. Tale angoscia psicotica, seppure contenuta dal lavoro analitico, sembra rinforzare l’immagine idealizzata del corpo prepubere e spingere Leone a proteggere il corpo sessualmente maturo dall’odio che potrebbe rivolgere anche contro di se stesso. Fino a che rimane in casa, vera e propria estensione del corpo materno, egli si sente relativamente sicuro; quanto più si allontana, tanto più si sente angosciato e teme di poter venir meno da un momento all’altro. E’ presente soprattutto la paura di inoltrarsi in un ambiente ignoto, vissuto come ostile in quanto non familiare, con l’oppressione di penosi sentimenti d’insufficienza ed inferiorità esaltati dalla condizione di solitudine. Se infatti egli può disporre della compagnia della madre o di un’altra persona amica che lo conosce e gli vuol bene, ciò è sufficiente a dargli una sensazione di sicurezza che gli consente di ampliare notevolmente il territorio in cui avventurarsi. Giocando sulle proprie angosce, è riuscito ad organizzare una piccola corte sempre pronta ad esaudire le richieste del ‘Principe’: non solo sua madre, ma anche amici e parenti sono assai solleciti nei suoi confronti. Ciò gli consente, con un abile dosaggio delle richieste, di condurre una vita all’apparenza normale, senza grandi limitazioni, e in fondo si compiace della propria abilità e furbizia, sperimentando spesso un sottile sentimento di trionfo. Sentimento che si ‘esaurisce’ all’interno della relazione analitica .
L: Ho sognato che c’era una setta.. qualcosa votata al male.. c’è un capo e della gente che uccidevano delle persone.. forse ci sono pure io.. una setta votata al male sul piano.. orgiastico.. io devo subire quello che vogliono loro.. se avessi rifiutato mi avrebbero ammazzato.. io dico che piuttosto che farmi ammazzare divento cattivo.. allora io e questo capo ci iniziamo a menare perché questa era la prova che dovevo affrontare per entrare nella setta..
T: Forse provare tanta rabbia nei miei confronti quando disattendo le tue aspettative, ti sembra una cosa terribile, maligna.. quasi preferiresti rinunciare a tutto e subire qualsiasi cosa da me, pur di non provare questa grande rabbia..
L: E’ che a volte avrei bisogno di un consiglio… una pacca sulla spalla…
Con tale atteggiamento di resa totale Leone sembra esprimere il motivo della rinuncia a ricercare il soddisfacimento attivo e sembra mostrare il perché accetta un ruolo passivo rispetto al predominio del Super-Io. Ma la mia interpretazione del suo desiderio di offrire il proprio corpo e di attribuirmi la responsabilità per il suo corpo e la sua mente, in altre parole di attribuirmi la responsabilità dell’odio che ha per se stesso, serve a spostare, un poco, il punto focale della psicoterapia. Affiorano in lui ricordi di intrusioni materne: intrusioni che peraltro non riusciva a controllare per il soddisfacimento che ne ricavava. Ricorda come fino ai dodici anni fu lui ad insistere per essere ancora lavato dalla mamma, e di come intervenne il padre, il quale stagliatosi di fronte la porta del bagno, con voce spettrale, bloccò la prosecuzione degli “strofinamenti” materni. Pure adesso, nonostante abbia anche la vasca da bagno, Leone preferisce fare la doccia nella cabina che si trova nella camera della madre, costringendola ad uscire, per potersi lavare e masturbare liberamente fantasticando di essere lì a “strofinarsi” con un amica. Poco alla volta, la psicoterapia metterà in luce come nelle sue angosce, un’importante componente sia costituita da inconsce pretese onnipotenti: l’angoscia di sostenere un’interrogazione scolastica aveva a che fare, fra l’altro, col dubbio tormentoso che la sua pretesa d’eccellenza potesse non essere riconosciuta, che un professore qualunque poteva giudicarlo impreparato, ricordandogli la dipendenza dalle valutazioni altrui. In base allo stesso atteggiamento mentale, egli pretenderebbe che i passanti fossero tutti persone amichevoli, pronte ad aiutarlo col sorriso sulle labbra; la loro indifferenza lo sconcerta e lo spaventa, ai suoi occhi essi divengono lupi pronti a sbranarlo.Il fatto che la realtà resista alle sue aspettative e alle sue pretese, è fonte di perenne sconcerto, umiliazione e rabbia. Una rabbia furente, disorganizzante.
L: Per la festa di Capodanno, la mia mamma è andata via per una settimana con Claudio… da quando è tornata non la sopporto.. mi porta all’esasperazione e mi fa’ stare male..
T: Sembra che provi molta rabbia nei confronti della mamma… forse provi molta rabbia nei miei confronti… anche io per le festività natalizie ti ho lasciato solo…
L: (Scuro in volto) Non lo so…
La seduta successiva Leone telefona avvisando che sarà assente.
L: Dopo la seduta della scorsa settimana ho fatto un sogno brutto.. Claudio per scherzo incomincia a fare arrabbiare la mia mamma.. poi diventa sempre più cattivo.. io con la cornetta del telefono lo picchio in testa fino a che non muore.. allora mia mamma dice “Questo è morto.. scappiamo!”
T: Che ne dici di questo sogno?
L: Pensavo alla cornetta del telefono… io col telefono ho un rapporto particolare.. mi fa’ sentire importante.. parlare al telefono mi tranquillizza, forse perché non sono visto.. poi a volte mi scambiano per donna..
T: Forse ti tranquillizza mimetizzarti, affinché tutto resti immobile?
L: (mi guarda fisso negli occhi) …c’è una battuta che mio padre diceva sempre: “Ti ha mai fatto male una telefonata?”…
Sentimenti d’inadeguatezza e d’onnipotenza stringono Leone come in una morsa.
Sono entrambi contestualmente presenti anche se, di volta in volta, gli uni in primo piano e gli altri sullo sfondo e caratterizzano gli ambienti che definiscono l’area della sua esistenza: la casa della madre, l’istituto scolastico e lo studio dello psicoterapeuta. Nei primi tempi, Leone giunge in seduta trafelato, col cuore in gola, spesso con dieci minuti di anticipo. Gli servono per ritrovare la calma, per predisporsi all’incontro. Quando questo avviene, appare timido, impacciato, evita di dare la mano, come pensasse che sarebbe troppa confidenza, qualcosa che non si deve permettere. Copre i pochi metri che lo separano dalla poltrona con passi felpati ed esagerata attenzione a non sporcare e non far rumore, per poi accomodarsi col sollievo di chi finalmente ha raggiunto il sospirato rifugio. Pochi attimi d’assestamento, ed ecco emergere il ‘Principe’. Il trovarsi alla presenza di uno psicoterapeuta che egli fantastica al suo totale servizio e l’essersi insediato con soddisfazione in quella sorta d’avamposto contro le difficoltà e l’ostilità del mondo, sembra che l’autorizzi ad ergersi e a tuonare le proprie rivendicazioni contro tutto e contro tutti. Lo scopo inconscio è quello di abbagliarmi con la sua grandezza e spingermi a colludere, adeguandomi alle sue fantasie sulla psicoterapia intesa come situazione aristocratica in cui cimentarsi in vibranti tenzoni retoriche. In tale disegno lo psicoterapeuta, potentemente idealizzato, avrebbe dovuto mettere a disposizione le proprie esoteriche conoscenze consentendo a lui, privilegiato neofita, di impadronirsene e fregiarsene narcisisticamente. Una sorta di iniziazione che Leone ritiene possibile solo ad una piccola schiera di eletti. Quando, inaspettatamente, si trova a scontrarsi con il silenzio analitico, egli prova uno sconcerto che si tramuta rapidamente in angoscia e rabbia. Rabbia per il fatto che egli interpreta il silenzio come un atteggiamento sadico di chi, pur avendone gli strumenti, non vuole aiutarlo; angoscia, perché la mancanza delle parole dello psicoterapeuta lo disorienta, gli fa temere di perdere la ragione e di andare in pezzi. Nei primi anni, non c’era seduta in cui egli, ad intervalli periodici, non sorrideva improvvisamente come per sorprendermi. Allora mi scrutava lungamente, accennava qualche buffa espressione, all’evidente scopo di farmi ridere talora con successo e si accontentava di quel poco che era riuscito a carpire.
Nella relazione analitica Leone ricreava transferalmente il rapporto fusionale con la madre, si aspettava che io pensassi per lui, utilizzassi a suo modo quanto lui mi portava e gli dessi poi insegnamenti ed indicazioni che egli, con la propria intelligenza, avrebbe subito messo a frutto per giungere trionfalmente a guarigione in pochi mesi. Una guarigione maniacale, rappresentata in primo luogo dal possesso feticistico dello strumento analitico e dallo splendore derivante dal ritenersi appartenente ad una cerchia elitaria. Ovviamente sarebbe stato deleterio farsi condizionare dal suo gioco, cedendo alle pressioni aggressive o alle abilissime lusinghe. Si trattava di mantenere il rigore del setting e di conservare una capacità di pensare che permettesse, tenendo conto delle indicazioni controtransferali, di non agire controidentificazioni proiettive o anche, più sottilmente, di non lasciarsi sedurre dalle mille abilissime sollecitazioni di carattere intellettuale ed emotivo che avrebbero ridotto l’intervento analitico alle passeggiate infantili con la zia, ad un dissertare pedagogico, a fornire interpretazioni più o meno brillanti che il paziente stesso era in grado di formulare ma che poi, in fondo, si rifiutava di prendere autenticamente in considerazione. Con tale modalità transferale Leone proponeva l’antico stile relazionale, caratterizzato dall’assunzione di un ruolo di dipendenza aggressiva in cui egli avrebbe perpetuato la propria condizione di ragazzino sprovveduto e rabbioso, che escludeva ogni reale possibilità di definitiva emancipazione, mentre io avrei dovuto essere permanentemente disponibile e sollecito, pronto a soddisfare le sue pretese onnipotenti e, di volta in volta, Gertrude amorevole, Orazio fidato, intellettuale di corte. La sua difficoltà nel separarsi dalla madre per orientarsi sessualmente e vivere pienamente il proprio corpo adolescente, sembra essere ben rappresentato da un sogno:
“Ero ad una festa di amici della mia età.. c’erano delle ragazze che mi piacciono.. volevo telefonare a mia mamma, ma non riuscivo ad usare il cellulare.. ho preso l’auto e sono partito. Dovevo arrivare in seduta.. io sbaglio la manovra.. c’è uno che mi chiude lo spazio, mi intralcia e pretende che vada avanti.. non posso fare retromarcia, devo continuare ad andare avanti in un cunicolo sterrato..”
Leone sembra trovarsi obbligato ad affrontare l’angoscia claustrofobica per il cunicolo analitico, in cui è obbligato a transitare. Entrerà in contatto con il migliore amico del padre. Con lui deciderà di ripristinare una barca in disuso, costruito dai due vecchi amici parecchi anni prima, allo scopo di avventurarsi in mare aperto sotto lo sguardo vigile del compagno anziano. Il rapporto tra i due andrà avanti, non senza ostacoli, ed egli si accorgerà dell’enorme ambivalenza nei confronti di una figura paterna, della cui competenza non riesce a fare a meno per il restauro dell’imbarcazione.
Così, con gli anni, poco alla volta, il comportamento del paziente in seduta cambia, così come muta contestualmente il suo comportamento fuori. Con una qualche messa a fuoco dei sentimenti e delle emozioni, egli diviene un po’ più consapevole della propria realtà psichica, ed è più capace a parlarne. La prima conseguenza è un lento, faticoso, ridimensionarsi del Principe. Le sue aspettative, le sue pretese onnipotenti, vengono più facilmente riconosciute e criticate. Il Principe sembra così arretrare progressivamente su posizioni difensive sempre più nascoste. A tale ritirata del Principe, fa riscontro una progressiva capacità del paziente di estendere il proprio raggio d’autonomia: dapprima si tratta solo di alcuni tragitti privilegiati, poi poco alla volta egli sembra in grado di spingersi più lontano. Quando viene superato, non senza difficoltà, l’esame di Maturità, Leone si trova ad affrontare la scelta della Facoltà Universitaria. Decide di iscriversi ad una Facoltà Umanistica di una città distante un centinaio di chilometri dal suo ‘castello’ e dopo lunghe contrattazioni con due studenti universitari del luogo (novelli Rosencrantz e Guildensteirn) prende una casa in affitto, nel tentativo di trasferirsi là definitivamente. In questo periodo, mi accorgo che il paziente tende ad utilizzare il fatto che io lavori nella sua città d’origine, la stessa dove vive la madre, come alibi per ricreare una situazione di stallo nel processo evolutivo. Il comportamento di Leone, attraverso atti mancati, lapsus, somatizzazioni, ipocondrie, sembra esprimere il desiderio del Principe di contrattaccare e ‘intrappolare’ la psicoterapia. L’idealizzazione dello psicoterapeuta sembra essere, sempre più, una difesa del paziente nei confronti del desiderio di distruggere colui che avrebbe potuto, se solo avesse voluto, conferire quel potere ‘regale’ che mancava. Dopo un’accurata analisi della situazione, comunico al paziente il contenuto delle mie riflessioni. Decidiamo di dare un termine al lavoro analitico prendendoci un lungo tempo per il commiato, con scadenza tuttavia inderogabile. Sceglierò, per concludere la psicoterapia, novembre il mese dei ‘morti’, allo scopo di aiutare il paziente ad elaborare, almeno un po’, questa separazione.
Nonostante la madre si sia trasferita ai piani alti, nella villa di Claudio, mentre al ragazzo sia stata destinata la fredda taverna, la fatica di Leone nel dirigersi verso nuovi oggetti è ancora grande.
Egli pur avendo ora in sé più risorse per vincere la propria riluttanza a trasferirsi nella nuova città universitaria, sembra voler mantenere un’area d’incertezza che, a mio avviso, coincide ampiamente col dominio ‘clandestino’ del Principe.
Ps. Per motivi di privacy i dati personali e biografici dei pazienti sono stati modificati
di Maurizio Cottone, lavoro letto al IX Convegno Nazionale Psicoterapia Adolescente, Torino, 01 ottobre 2010