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Lo Schermo Perverso

Lo Schermo Perverso

Le immagini dicono sempre molto di più delle parole.
Prendiamo le immagini della sequenza onirica che Ingmar Bergman ha posto come introduzione ad uno dei suoi film più belli e significativi, “Persona”.  Al termine di un incubo, popolato da immagini di morte e di cadaveri, un bambino cerca, con il palmo della mano, di toccare il volto di una donna proiettato su uno schermo. Un gesto concreto, rivolto a sentire o, forse, a risentire le sensazioni legate ad un rapporto vivificante, un gesto ripetuto e protratto che va a vuoto, perché cerca di afferrare qualcosa che non c’è, che è assente, perché nessuna immagine ha corpo. Si potrebbe discutere a lungo su chi rappresenti questo enorme volto di donna, sullo schermo su cui il bambino fruga lentamente. In effetti si tratta solo dei volti delle due attrici protagoniste che qui si succedono insensibilmente, mentre nel film, per esprimere la natura simmetrica e fusionale del loro rapporto, Bergman li farà sovrapporre. Che si tratti della madre o di ogni donna adulta che rinvia all’immagine della madre, cambia poco. Più interessante è la sensazione che trasmette il gesto di questo bambino, la matrice angosciosa della sua ricerca che cerca di dare corpo ad un’immagine esterna perché dentro di sé ha solo immagini morte. Lo stesso Bergman racconta come “Persona” l’abbia salvato da una delle peggiori crisi depressive della sua vita e addirittura dal suicidio, e sostiene che questo film tocchi “segreti senza parole, che solo la cinematografia può mettere in risalto”. Nei film in vario modo legati al tema delle relazioni perverse, negli amori impossibili, negli amori fusionali e nelle storie di sesso perverso che raccontano, sembra esserci sempre una mano di un adulto che cerca di concretizzare quell’immagine, allo stesso modo, con la stessa necessità, con la stessa disperazione.

La nozione di “perversione” è tra le più complesse, confuse e controverse, causa l’impossibilità di svincolarsi dal riferimento ad una “norma sessuale” socialmente condizionata e rapidamente variabile. Il termine si colloca in una perenne ambiguità tra deviazione e sovversione innovatrice della norma, tra incapacità di adeguarvisi e volontà di spostarne i limiti, tra malattia e fenomeno sociale. Negli ultimi decenni la psicoanalisi ha monopolizzato la discussione scientifica nell’area dei comportamenti perversi, trasformandone lo statuto da vizio, devianza, in una visione che ne valorizza la componente fantasmatica e il significato di difesa. Attualmente inoltre l’area dei comportamenti perversi ha guadagnato una progressiva visibilità sui diversi canali mass mediali, creando un suo diffuso immaginario e un variegato mercato -fumetti, dvd, internet, club privèe – al quale è del tutto estranea ogni considerazione di ordine psico(pato)logica. Lo statuto intermedio tra realtà e fantasia, rappresentata dal feticcio, fa comprendere perchè le perversioni proliferano su ogni tipo di supporto tecnologico. La realtà virtuale permette una fruibilità fisica e percettiva concreta, ma difende dal rapporto diretto con l’altro, che è reso esistente e non esistente nello stesso tempo. I comportamenti perversi, in senso stretto, possono essere semplicemente considerati fenomeni antropologici legati al fatto che in determinati periodi storico-culturali certi modi di pervenire all’orgasmo siano più o meno eccezionali, divenendo in questo caso “ripugnanti” per coloro che fruiscono di modalità più diffuse e abituali. Ciò che caratterizza le relazioni perverse, questione ben più interessante, sono i mezzi e gli artifici che consentono di mettere in atto le fantasie sovrapponendole alla realtà; la strada più facilmente percorribile è quella della feticizzazione dell’altro. Questo Altro oltre a rappresentare l’oggetto primario, è di fatto reso inumano per poter essere controllato, immobilizzato, messo in condizione di non poter mai sorprendere e di non essere mai perduto. Nell’“ordine feticistico” l’altro è un supporto indispensabile per la sopravvivenza del soggetto. E’ nell’impianto ossessivo che si sostituisce la Regola alla Legge (la codifica, le enumerazioni, ben evidenti ad es. nell’opera cinematografica di Peter Greenaway) e la perversione evoca forti analogie con l’universo deanimato e simbolicamente impoverito dell’ossessivo-compulsivo. La ripetizione e la ritualità, i cerimoniali e la cura dei dettagli caratterizzano entrambi, tuttavia il mondo erotico dell’ossessivo è totalmente asservito alla Legge e ai divieti, così come quello perverso vi si sottrae, più che trasgredendoli, denegandoli. Per motivi che meritano attenzione e stimolano le interpretazioni, il cinema d’Autore abbonda di riferimenti alle pratiche e alle dinamiche perverse, sugli schermi sono state portate le più diverse variazioni sul tema Eros/Thanatos. Ho scelto tre esempi d’Autore che illustrano con grande chiarezza il senso psicopatologico del feticismo, del sadomasochismo e del breakdown psicotico. Il primo esempio è tratto da “Bella di giorno” (1967) uno tanti film scandalosi di Luis Buñuel; il secondo è tratto dal melodramma di Roman Polanski “Luna di fiele” (1992); il terzo infine dal bellissimo film di François Truffaut “La camera verde” (1978). Autori questi che forse non a caso, più volte si sono cimentati sui temi del sadomasochismo, del feticismo e della psicosi.

 

BELLA DI GIORNO

L’avvenente moglie di un medico, Séverine, seguendo una sua disposizione masochistica ed espiativa che probabilmente le deriva dall’aver subito una seduzione infantile da parte di un operaio, si prostituisce volontariamente in una casa di appuntamenti parigina ogni pomeriggio. Diviene rapidamente la prediletta di numerosi clienti perversi che sono attratti più dalla sua aria impacciata e remissiva che dalla sua conturbante bellezza. In questo contesto accetta l’invito mercenario di un misterioso e raffinato Duca. Séverine gli serve per una messa in scena necrofila in sostituzione della moglie morta (forse uccisa da lui). Il Duca la conduce nella sua residenza sontuosa sulla carrozza, la fa spogliare dal maggiordomo e la fa stendere, immobile, nuda, con indosso una corona e un velo nero, in una cassa da morto. L’allestimento ha buon fine, il Duca può giungere al suo soddisfacimento facendo tremare la bara sotto cui finisce a masturbarsi mentre continua il suo dialogo con la ‘morta’: “adesso i tuoi occhi non si apriranno più, le tue membra sono rigide e i vermi ti rodono il cuore, e questo odore di fiori morti, questo odore ubriacante di fiori morti…”. Il rituale necrofilo funziona quindi in due tempi: una prima parte che riattiva il ricordo nostalgico di un oggetto d’amore morto, negandone la morte mediante la sostituzione con un feticcio, la seconda che erotizza quegli aspetti ripugnanti (la decomposizione, la putrefazione della carne) legati alla morte, in una sorta di libera aggressione al morto, nella persona, si potrebbe dire, del suo feticcio. Per la sua perfetta collusione masochistica e feticistica col rituale, Severine ne è affascinata e vorrebbe poterlo ripetere, ma il maggiordomo la liquida bruscamente dicendo che il Duca vuole che le ragazze reclutate vengano sempre sostituite. Perché possa funzionare il rituale deve escludere l’instaurarsi di una relazione continuativa. L’oggetto d’amore non può né deve essere sostituito, deve mantenere il suo statuto feticistico perché solo così può assolvere la funzione di alleviare concretamente il dolore depressivo garantendo l’illusione della negazione di un lutto e facendo da bersaglio per la rabbiosa aggressività del sopravvissuto. Utilizzato come una protesi per aggirare le angosce di morte e disintegrazione, l’oggetto perverso è quindi un feticcio impersonale frapposto tra il desiderio e il partner, ridotto a complice collusivo. Implicando un diniego parziale della realtà, l’oggetto perverso può esistere soltanto come illusione, come “quasi delirio che protegge dal delirio”; la sua manipolabilità gli assicura una fruibilità, sebbene solo sul piano intermedio del gioco rappresentativo. Questo statuto, che accomuna oggetto perverso e oggetti della creazione artistica, facendo stabilire intriganti parallelismi tra l’una e l’altra attività, rende ragione del carattere spesso onirosimile della scena degli agiti perversi, e della confusività masturbatoria in essa tra zone erogene e mete del soddisfacimento.

 

LUNA DI FIELE

“Luna di fiele”, film tratto dal romanzo di Pascal Bruckner “Lunes de fiel”, mette invece in scena una situazione apparentemente reale e normale, quella dell’innamoramento di uno scrittore, Oscar, per la giovane ballerina Mimì definita da questi “uno sconcertante miscuglio di maturità sessuale e innocenza infantile”. Ben presto nell’esplosiva situazione emotiva ed erotica che si produce, si immettono comportamenti perversi (sadomasochisti, esibizionistici, scatofili) rivolti a mantenere intatta l’intensità emotivo-affettiva fusionale. Ma è proprio nel corso di uno di questi rituali recitati collusivamente che i due si rendono conto dell’insufficienza della funzione rappresentativa a suscitare e evocare l’acme fusionale e improvvisamente piombano nella noia. A rivitalizzare la relazione sono allora agiti rabbiosi e aggressivi (litigi furibondi, sentimenti di gelosia e aggressioni delle possibili rivali da parte di Mimì, falsi abbandoni, il ricorso da parte di Oscar a rapporti mercenari esterni alla coppia etc.). Imprigionati dalla impossibilità di separarsi e, nello stesso tempo, dalla necessità di mantenere in vita una relazione agonizzante rispetto alle loro esigenze emotive, i due possono solo instaurare dinamiche sadomasochistiche nelle quali Oscar fa la parte del sadico e Mimì quella della vittima umile e compiacente (“posso sopportare tutto pur di stare con te…ti prego, non mandarmi via, anche se non mi ami!”). Ma anche questa soluzione non è stabile perché comporta un progressivo incremento del sadismo di Oscar che giunge a far abortire la ragazza, per poi abbandonarla.
La ragazza ricomparirà rovesciando a suo favore la relazione sadomasochistica in virtù dello stato di impotenza in cui Oscar si ritrova, a seguito di una lesione midollare che lei gli provoca. Sessualmente impotente, incontinente e totalmente dipendente dalle cure di lei, Oscar, suo malgrado, diviene il partner masochista ideale per ogni sorta di vessazioni che lei gli infierisce: “sei prezioso per me, più prezioso di quanto non lo fossi prima”, gli dice. Ma anche quest’assetto sadomasochistico rovesciato non è stabile perchè nella sua necessità di essere agito (nella componente erotica) al di fuori della coppia, richiede la collusione dei due nel coinvolgere altri partners e, consumata anche questa possibilità, non resta loro altro da fare che mettere in atto un omicidio/suicidio. Questa vicenda, così perfetta nella sua doppia simmetria di trasformazione dell’amore in odio e della capacità della perversione di comporre l’uno e l’altro facendoli coesistere è emblematica.  Ci si trova quindi nella situazione paradossale di dover uccidere l’oggetto d’amore ogni volta che non assolve la funzione di oggetto totale, per poterne constatare l’indistruttibilità, risentirlo vivo e potersi riunire a lui. Queste paradossali modalità di attaccamento una volta accolte dal partner instaurano un regime sadomasochistico. Sia nel masochista che nel sadico, aggrapparsi all’oggetto ha tipicamente la meglio rispetto al lasciarlo andare a causa dello stadio di incompleta separazione a cui il sadomasochista è fissato: lasciare andare significa lasciare non solo l’oggetto ma anche una parte di se stessi. E’ per evitare questa perdita che il sadomasochista fugge dal mondo reale della dipendenza a quello immaginario dove può giuocare il falso gioco dell’oggetto. Dalla continua instabilità tra separazioni e riunioni si giunge alle fase in cui né l’una né l’altra sono più possibili: uno stallo, ben descritto dall’enunciato paradossale ‘né con te né senza di te’. E’ questa la fase in cui, non essendoci più le condizioni di possibilità di una relazione tra i due partners, è facile il passaggio ad agiti esterni alla coppia, ad esempio mediante il coinvolgimento di altri partners, strumentale a ristabilire un equilibrio narcisistico a prezzo di continui attacchi distruttivi. Quando i comportamenti sadomasochistici si cronicizzano, assolvono la funzione paradossale di mantenere unita una coppia che altrimenti si separerebbe. Si può allora pervenire all’attivazione di dinamiche sadomasochistiche estreme che paradossalmente uniscano la coppia non più nella vita ma nella morte: tentativi di suicidio, suicidi a due, omicidi-suicidi: suicidi che ‘legano’ a vita coppie altrimenti destinate alla separazione.

 

LA CAMERA VERDE

Il protagonista de “La camera verde”, Julien Davenne, è un uomo che ha vissuto molti eventi traumatici: tra questi ha perso la giovane moglie pochi mesi dopo il matrimonio. Vive con un’anziana governante e il figlio adottivo sordomuto. Lavora nella redazione di un giornale, il Globe, dove viene definito dai colleghi ‘un virtuoso del necrologio’. Questa è solo la sua vita di superficie: l’uomo ha una vita segreta e la trascorre nel ricordo della defunta moglie. Questa esistenza, nascosta agli occhi del mondo, si svolge all’interno della camera verde, una stanza sempre chiusa a chiave, che si trova nella casa dove vive. Qui egli ha raccolto fotografie e oggetti appartenuti a Julien, la moglie. In questo spazio egli vive molta parte del suo tempo, a volte vi trascorre l’ intera notte, vegliando. La fascinazione per questo universo delle memorie pone il protagonista in una solitudine che ha corroso e assottigliato i suoi rapporti umani. Davenne prova empatia per qualcuno solo nelle situazioni di lutto, ma è incapace di condividere gioie o sorrisi. L’amore del protagonista per i morti è come un furore, una sorta di fanatismo religioso che non ammette alternative, per questo ha deciso di intraprendere una sua battaglia personale contro l’oblio: “Sono scandalizzato dalla facilità con cui si dimenticano i morti”. La separazione dal mondo viene narrata dal regista attraverso una poetica dei vetri. Il protagonista spesso è ripreso attraverso il parabrezza della macchina, sullo sfondo di finestre colorate che non lasciano intravedere il mondo esterno. Di tutta questa serie di vetri che delimitano l’orizzonte della storia uno ha un ruolo centrale e sintetizza l’essenza del protagonista. Gérard, vedovo inconsolabile amico di Davenne, va a cercarlo nella redazione del Globe per renderlo partecipe della sua gioia: si è innamorato e si è nuovamente sposato. Davenne ascolta non visto il racconto di questo evento e, per evitare l’incontro, si nasconde. L’obiettivo inquadra una porta a vetri davanti alla quale passa la giovane coppia, felice. Il vetro lascia trasparire un volto le cui linee sono frammentate dalla smerigliatura dei vetri. Solo in un secondo momento lo spettatore comprende che questa figura è Davenne, nascosto dietro la porta per non incontrare i due. Ancora una volta egli è visto attraverso un vetro, ma questa volta è un vetro che nasconde e deforma. È un’immagine che nella sua essenzialità non ha più nulla di umano, dietro quel vetro non c’è più un uomo, ma un’immagine che lo evoca, una figura inanimata che allude ad un simulacro di vita. L’immobilità dell’immagine dietro la porta a vetri anticipa la morte che giungerà alla fine della storia. Ma questa sequenza rivela ancora qualcosa. Nella sua lotta intransigente contro l’oblio Davenne vede la realtà nello stesso modo in cui lo spettatore vede lui, attraverso un vetro deformante. Nella scena successiva diviene evidente la qualità di questa sua visione distorta: nel colloquio con Cecilia, una giovane donna che ha conosciuto ad un’asta, egli esprime tutta la sua disapprovazione per il vedovo, rivelando una cecità emotiva, una totale incapacità di comprendere empaticamente i sentimenti altrui. In questo dialogo si contrappongono due diverse visioni della vita e della morte: “In questo mondo crudele e senza pietà voglio almeno il diritto di ricordare, anche se dovessi essere il solo a ricordare”, sostiene Davenne e la donna replica: “lo non so trovare le parole, ma sono convinta che bisogna dimenticare. Lei ama i morti contro i vivi”.                 L’incontro con la giovane Cecilia segna un momento importante nella vita del protagonista, vissuto però in una dimensione di penombra, di inconscietà. L’attrazione che, nonostante le resistenze, egli prova per la donna si rivela in modo indiretto, attraverso innumerevoli colloqui sui morti. Il rapporto diviene Amore, ma questo sentimento rimane nascosto in un cono d’ombra. La realizzazione del progetto di dedicare una vecchia cappella al culto dei suoi morti permette all’uomo di entrare in un rapporto di sentimento con la giovane Cecilia. Il progetto permette a Davenne di essere a contatto con l’oggetto amato e di coinvolgerlo senza parlare mai d’amore. Quando conduce Cecilia in questo luogo le fa una paradossale domanda di matrimonio: “Cecilia accetta di diventare insieme a me la guardiana di questo luogo, di dividerne diritti e doveri? Desidero che i miei morti divengano i suoi e che i suoi divengano i miei”. La donna successivamente gli scrive rivelandogli il suo amore, ma aggiunge: “per poter essere amata da lei dovrei essere morta”. Dopo aver letto la lettera Davenne esce di casa e si reca nella cappella per incontrare la ragazza. Cecilia improvvisamente comprende che per Davenne accettare quel sentimento d’amore sarebbe mortale, ma ormai è troppo tardi. Egli muore appena entrato nella cappella, di fronte alla fotografia della moglie e tra le braccia di Cecilia.

Vorrei concludere questo mio intervento con una notazione curiosa ed emblematica della stretta relazione tra perversione e creatività, nella fattispecie, tra perversione e cinema. In una intervista rilasciata all’epoca ad un quotidiano parigino, così dichiara Francoise Truffaut: “Mi è sembrato che recitando io stesso nella parte di Julien Davenne, avrei ottenuto lo stesso effetto di quando, nello sbrigare la corrispondenza in ufficio, decido di scrivere certe lettere a mano… se scrivete a mano, la lettera non sarà perfetta, la scrittura risulterà un po’ tremolante, ma sarete voi, sarà la vostra scrittura. La camera verde è una lettera scritta a mano” .

 

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Lavoro letto alle giornate Cartel – SIPsA, Roma 9 maggio 2009

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