La Terapia Senza Paziente

La famiglia, insieme al paziente che soffre di disturbi psichici, è sempre travolta della malattia e delle sue conseguenze. I familiari vanno pertanto sostenuti, coinvolti e aiutati. Anzi vanno considerati una risorsa importante nel programma terapeutico. Quando in una famiglia il figlio o la figlia soffre di un disturbo psichico i genitori si pongono e ci pongono le più svariate domande, da quelle emotive ad altre prettamente pratiche. Ma una domanda spicca su tutti: dove ho sbagliato?
I sensi di colpa
Uno degli aspetti più importanti che emerge quando in una famiglia uno dei figli comincia ad avere problemi a livello psicologico, è la ricerca del perché. Un pensiero ricorrente nei familiari è: “è colpa nostra?”, “dove abbiamo sbagliato?”. È importante ricordare che colpevolizzare sé stessi o gli altri non ha mai aiutato nessuno. L’interrogativo da porsi non è: “di chi è la colpa?”, ma: “qual è la cosa migliore da fare adesso? Cosa possiamo fare per aiutare nostro/nostra figlio/figlia?”. Il senso di colpa impedisce di vedere le vie di uscita, causa dissapori tra i familiari (che magari si incolpano a vicenda) e contribuisce a mantenere o a cronicizzare il disturbo stesso. È importante quindi essere uniti. Rinfacciarsi le colpe non aiuta nessuno: è più importante guardare in avanti e cercare soluzioni per stare meglio. Spesso lo si trascura, ma il mettersi in discussione da parte dei genitori e/o dei compagni delle persone che accettano un percorso di cura, apporta dei vantaggi e dei benefici incredibili al percorso terapeutico dei loro cari. A volte, però, ci troviamo scoraggiati, per non poter e convincere la persona a noi vicina a iniziare un percorso terapeutico in un centro specializzato. Le teorie psicoanalitiche più accreditate hanno quindi elaborato una tecnica particolare adatta a questi casi specifici:
La terapia senza paziente
Si tratta di un approccio che si realizza esclusivamente con i genitori della persona che presenta seri problemi psicologici. Un figlio non è solo un oggetto esterno, ma anche un nostro oggetto interno, una parte nostra, da una parte idealizzata, dal altra carente, che proiettiamo sul figlio concreto, parte interna che è necessario imparare a comprendere e a curare. Si attiva così una psicoterapia indiretta grazie alla quale i genitori, cercando di aiutare il figlio aiutano anche loro stessi nel avvicinarsi a lui. Così mentre il figlio si trasforma e cambia grazie al cambiamento dei genitori, i genitori trasformano il loro atteggiamento curando il figlio. I genitori quando vengono a chiedere aiuto per un figlio che rifiuta le cure perché non sta bene, nonostante l’ansia con la quale esprimono la richiesta, sono in grado di comprendere fin dal primo colloquio che se il figlio rifiuta un trattamento, è perché in quel momento effettivamente non può affrontarlo. Ciò non esclude che sia comunque possibile aiutarlo e che questo può avvenire tramite loro. Dopo un periodo variabile di incontri con i genitori il trattamento settimanale si incentra sulla coppia o, quando ciò non è possibile sulla madre, che per lo più è il nodo delle diverse dinamiche familiari e la persona più in contatto con il ragazzo. L’ assenza fisica del figlio paradossalmente offre numerosi vantaggi al lavoro:
– il primo è quello di sottolineare il significato simbolico della presenza del figlio, cioè capire che il figlio rappresenta un nostro oggetto interno. Si offre ai genitori un primo spazio di separazione del quale poter cominciare a distinguere sé stessi dal figlio, il figlio immaginato dal figlio reale.
– Il secondo vantaggio di questo tipo di setting è quello di fornire un ambiente in cui genitori possono affrontare le problematiche proprie e dei figli, lavorando anche sulla loro autostima. I genitori tendono a vivere l’invio di un figlio in trattamento in modo particolarmente depressivo come una prova del loro fallimento.
Certamente il rinunciare all’incontro con il paziente e optare per una strategia di cura indiretta può essere vissuta come innaturale, ma a volte è l’unica strada percorribile, in attesa che il figlio riesca ad intraprendere il percorso di cura del sintomo con un altro terapeuta. Spesso questa particolare modalità può risultare vincente, come in alcuni casi da me seguiti in passato.
Il caso di Mara
Mara è una signora dolce affabile di 65 anni circa che anni fa mi venne inviata dal centro per i DCA MondoSole poiché la figlia, di oltre trenta anni, da tempo soffriva di anoressia nervosa. Nonostante i numerosi ricoveri e il persistere della condizione di disturbo alimentare, la figlia di Mara continuava a rifiutare le cure. Il Centro, non potendo accogliere la ragazza per via del suo rifiuto, invia la signora Mara al sottoscritto. In seduta inizialmente Mara manifesta molti dubbi sull’utilità che potesse avere un lavoro dove si cercava di aiutare la figlia attraverso la mamma. In realtà le cose sono andate così, e questo grazie ad una la lenta presa di coscienza di Mara del rapporto intenso, “fusionale,” che aveva con la figlia. Tale rapporto creava delle dinamiche patologiche che impedivano alla ragazza di prendersi cura di sé e alla mamma di vivere serenamente la propria vita. Dopo numerosi incontri Mara si accorge che era giunto il momento di lasciare la figlia a casa da sola e che la sua tendenza a correre in soccorso della ragazza non aiutava la risoluzione del sintomo. È stato fatto quindi un percorso separativo, prima psicologico, poi concreto, dove la madre si è soggettivizzata come donna separata, non più solo come madre, e la figlia si è lentamente soggettivizzata come donna a sua volta separata dalla madre, e non più solo come figlia. Questo processo è passato per una faticosa e angosciante uscita di casa della signora che, letteralmente, a quasi 70 anni è riuscita da sola a traslocare in un’altra abitazione. Tutto ciò è avvenuto ovviamente con molta fatica, con molte angoscia e paura, ma la rassicurazione che le veniva data, sia dal rapporto analitico con me, sia dal loro comune medico di famiglia, le ha permesso di compiere questo passo. Il passo compiuto da Mara è stato importantissimo perché la figlia, dopo i primi momenti di angoscia, solitudine, e rivendicazioni nei confronti della madre, è riuscita a trovare uno spazio di autonomia che le ha portato lentamente a prendersi cura di sé e a mangiare di più. Questo è un caso esemplare che dimostra l’importanza che può avere la terapia senza paziente, anche se è sempre importante considerare che la tendenza ultima della terapia senza paziente rimane sempre quella di far sì che, cambiando le dinamiche del rapporto tra i genitori e figli, i ragazzi possono prendere consapevolezza del sintomo, imparando cosi a prendersi cura di sé in maniera sana e consapevole, attraverso un percorso psicoterapeutico individuale.
-intervento per la conferenza organizzata dal Centro MondoSole: “Quando il cibo diventa una malattia”, Cinema Fulgor, Rimini 15 marzo 2019