Il Linguaggio dell’ Artista

Il cinema mi ha sempre accompagnato lungo le fasi dell’esistenza, segnandone i passaggi fondamentali. Rammento i pianti per il destino della mamma di Bambi (Disney, 1942), la simpatia per Romeo «er mejo der Colosseo» (Gli Aristogatti, Reitherman, 1970), la tensione per la corsa delle bighe in Ben Hur (Wyler, 1959); e poi i cinema parrocchiali, i peplum, Ercole sfida Sansone (Francisci, 1963) su tutti. E, ancora, i primi fremiti adolescenziali con Sesso matto (Risi, 1973), visto prima dei quattordici anni stabiliti dalla censura, pochi mesi dopo non poteva mancare il cult Malizia (Samperi, 1973).
Sull’altro versante i western all’italiana, o “spaghetti western”. Oltre ai film del grande Sergio Leone, penso alla fertile produzione cinematografica che aveva a che fare con ambientazioni western girate in Spagna se non, addirittura, in Ciociaria. Titoli mitici: da Vado… l’ammazzo e torno (Castellari, 1967) a Dio perdona… io no! (Colizzi, 1967).
Poi il blocco soggettivo, la soluzione creativa, la realizzazione dei primi cortometraggi. Il primo dal titolo emblematico “Piccoli uomini non crescono – cambia che ti passa” (1980), piacevole nella sua voluta demenzialità. Infine la fase intimista, i cortometraggi introspettivi. Brevi film che raccontano di me, come in fondo questo scritto.
La scelta di Roma e l’iscrizione alla facoltà di psicologia rappresentano un altro tassello assieme alla passione per il cinema d’autore e al rispecchiamento nell’anima sofferente del regista russo Andrej Tarkovskij, sulla cui opera scrissi la mia tesi di laurea.
Il racconto di pura invenzione che segue, scritto da me giovane adulto, trenta anni fa, è dedicato a questo regista e ha la particolarità di seguire il canovaccio cronologico dei suoi film e di riprenderne i dialoghi.
1.Il linguaggio dell’Artista
Ho conosciuto Andrej Tarkovskij. Ricordo un caldo pomeriggio estivo di parecchi anni fa, a casa di uno sceneggiatore romagnolo.
La prima volta che lo vidi fu di spalle. Tonino, seduto, lo ascoltava in silenzio e io inizialmente ebbi la netta sensazione che lui, Andrej, non si fosse neanche accorto della mia presenza. Passeggiava nervosamente lungo la stanza, irritato e deluso perché Nostalghia non aveva vinto il premio più ambito a Venezia. A volte Tonino mi guardava, sorridendo, come a dire che l’uomo era questo e io mi chiedevo cosa sarebbe stato l’uomo senza l’“opera”. Osservavo il volto, ne analizzavo minuziosamente tutti i tratti. Lo vedevo in continua trasformazione e mi induceva, chissà perché, a una intrigante analogia: pensavo al mare, ora in burrasca, ora placido, screziato dalla luna o dal sole, ora blu o turchese; cangiante, come a nascondere un mistero.
C’erano dei momenti in cui Andrej parlava in russo, questi coincidevano con le punte massime di irritazione. Era in quegli istanti che si accorgeva della mia presenza e mi scrutava con occhi profondi e luminosi, mobilissimi. Improvvisamente mi rivolse la parola: chiese se conoscessi il film di cui si stava parlando. Lo conoscevo eccome, ne mandavo a memoria i fotogrammi; dei personaggi ricordavo ogni dialogo, sospiro, malinconia. Tuttavia non risposi, non riuscii a emetter alcuna parola. Gli occhi, quelli sì, funzionavano, e si erano incantati sull’abbigliamento, una gradazione variabile della stessa tonalità.
Sognai.
Tonino mi chiese se potevo accompagnare l’ospite a visitare l’entroterra romagnolo. La valle, assolata e splendente, sembrava ci stesse aspettando.
Per un primo tratto di strada camminammo uno dietro l’altro, poi appaiati ma sempre senza parlare. Andrej volle fermarsi a riposare in prossimità di uno dei piccoli ruscelli del fiume. Osservavo la vegetazione intorno: l’erba, verdissima e calda, sembrava spuma di piccole onde; i cespugli, cupi o chiari, meduse opalescenti; un albero, dai rami fitti, intricati e sinuosi, barriera di durissimo corallo.
Andrej, rapito, seguiva il fiume trasformarsi in torrente e poi in ruscello, infine in rivoli. Fermava lo sguardo in direzione del riverbero del sole sull’acqua e io pensavo alla predilezione dell’artista per i riflessi di luce o per le immagini riflesse, espressa ampiamente già nel primo cortometraggio.
Lo rividi nella piazzetta del paese, seduto su di una panchina, leggere un quotidiano. La pagina era aperta sul conflitto medio-orientale.
Scrutavo l’espressione preoccupata di Andrej e andavo con la memoria al primo lungometraggio e alla eco che aveva suscitato in tutto il mondo uno stile diverso di fare cinema, in sintonia con il movimento culturale presente in quegli anni in Unione Sovietica. Mi disse: «La cosa più terrificante non è la guerra in sé, ma il fatto che questa sia un’invenzione degli uomini». Aveva ragione, lo sapevo, ma francamente non riuscivo ad andare al di là del semplice tautologismo dell’affermazione. Mi guardò sorridendo. Ero molto giovane, ma il modo in cui guardava mi induceva a credere che forse lui aveva intuito la soluzione e il suo stile di vita lo rappresentasse. Forse l’artista riusciva ad accogliere il male proprio e di tutta l’umanità e, dandogli una nuova forma, trasformarlo in opera: l’uomo che era di fianco a me ne sopportava il peso.
Lo osservai: si era appisolato. Lentamente sollevò le palpebre e mi guardò con un’espressione dolcissima, che non ebbi più modo di vedere: «Stavo sognando mia madre», disse.
1.2. L’ Artista e l’ Opera
C’è un periodo dell’anno in cui il litorale adriatico è bellissimo. È la fine dell’estate quando, non più popolate dai villeggianti, le spiagge vengono percorse da venti leggeri e il sole, più obliquo, ha colori più caldi. Folate di vento scompigliavano i capelli di Andrej, tratteggiandolo in un’espressione fiera e austera.
Mi accorsi che era trascorso un anno dalla realizzazione del suo ultimo film, gli chiesi se pensasse a una nuova opera. Non rispose subito, non lo ha mai fatto; mi invitò ad accovacciarmi sulla sabbia, prese un legno e cominciò a disegnare cerchi concentrici. Poi cominciò a parlare: «Non è vero che l’artista ricerca il proprio tema: è il tema che matura dentro di lui come un frutto e chiede di essere espresso. È come un parto… io non sono il padrone della mia opera, ne sono il servo». Si interruppe a guardare una pozza d’acqua creata dal suo scavare con le mani la sabbia.
Contemplavo la distesa azzurra, immensa; non mi capacitavo del perché lui preferisse una pozza d’acqua al mare. «Non vedo mai il fango – disse – ma sempre l’acqua mischiata alla terra». «Perché non il mare?», gli domandai. «Francamente non ci ho mai pensato – mi rispose –; forse perché il mio spirito indagatore è spinto verso ciò che è scomponibile e analizzabile, forse perché sono cresciuto lontano dal mare ma vicino a corsi d’acqua: ruscelli e stagni…, o forse perché il mare mi fa paura, lo avverto come vivo, come qualcosa di inaccessibile».
Riandavo al primo incontro e alle sensazioni procuratemi dalle espressioni del suo volto. Pensavo che lui stesso fosse il mare e la difficoltà che incontrava nell’abbandonarvisi era la stessa che intimamente provava nel decifrare le proprie oscure profondità. Forse, allora, questo mondo sconosciuto si impossessava dell’artista e autonomamente indicava la via da percorrere.
Rientrando a casa mi trovai a pensare se, con la conoscenza di sé, la creatività è qualcosa che si perde o che rimane.
Mi ero da poco trasferito a Roma quando Tonino mi fece sapere che Andrej, malato, si trovava nella casa di Firenze. Non ebbi difficoltà a trovare l’abitazione, a due passi dall’Arno.
Venne ad aprire una donna minuta che poi seppi essere la domestica. Andrej mi accolse nella camera da letto, il male gli impediva di muoversi: «Come sta il mio giovane amico? L’avventura romana… tutto bene?» Non riuscivo a rispondere.
Osservavo il volto, ancora più scavato da profondi solchi, e mi chiedevo se l’uomo avesse perso la battaglia col male e se ne stesse facendo divorare. Mi guardò e capì che doveva dimostrare di conoscere i miei interrogativi: «L’Italia è un paese bellissimo ma, vedi, io sono russo e non posso pensare di vivere senza potere più rivedere la mia amata terra, la mia famiglia».
Addolorato ricordavo gli anni bui della persecuzione politica, l’ostracismo e l’esilio cercato dall’artista affinché potesse esprimersi liberamente. Mi guardavo intorno, l’arredamento di quella camera da letto lo avevo già visto in tanti suoi film: si respirava l’odore dei muschi, si udivano le nenie russe, si immaginavano, in lontananza, i boschi di betulle.
Socchiuse gli occhi e aggiunse: «Il villaggio dove sono nato non esiste più, è stato sommerso dal Volga. Dall’acqua spunta solo il campanile della chiesa. I miei genitori si amarono molto nei primi anni di matrimonio…, ma poi la guerra rovinò tutto».
Conoscevo alcune informazioni circa la sua infanzia. Sapevo che il padre, Arsenij Tarkovskij, poeta abbastanza noto, era stato segnato dalla guerra nel morale e nel fisico.
E ancora proseguì: «Allo scoppio della guerra ci trasferimmo nella casa della nonna materna, nella campagna lontano Mosca. L’infanzia è stato il periodo più importante della mia vita; sono cresciuto in una famiglia senza uomini e questo forse ha avuto grande influenza sul mio carattere che somigliava a quello di una pianta. Non pensavo ma sentivo, percepivo! Al ritorno dalla guerra mio padre era molto cambiato, litigava spesso con mia madre, decisero di lasciarsi… Mia madre amò molto mio padre, voleva che gli somigliassi… A ventidue anni entrai alla scuola di cinematografia sovietica, ma la mia esperienza ha dimostrato ancora una volta l’impossibilità di imparare a scuola a essere un artista». Continuava a parlare, era un fiume in piena.
Ero consapevole che quella confessione immediata aveva il sapore di un addio.
1.3. Andrej e la Nostalghia
Roma, per chi arriva dalla provincia, ha sempre un fascino particolare. La prima impressione che desta è che sia immensa e respinga ogni tuo desiderio di conviverci. Poi se hai pazienza, ne ottieni la confidenza.
Ci sono dei luoghi a Roma dove respiri la storia. Mi riferisco al Campidoglio dove, se ti accovacci in un punto preciso, non vedi altro che colonne romane e ti sembra che passato e presente si confondano. Oppure Villa Pamphili dall’ingresso maestoso, il parco immenso e in fondo, solitaria, la villa. Se ne percorri i viali adornati da fontane, corsi d’acqua, ruscelli e aspetti l’imbrunire, quando rimane deserta, provi la sensazione di sentirti sospeso tra ambiguità e mistero.
E Trastevere, un labirinto dentro cui, se non usi l’accortezza di imprimerti nella mente i nomi delle vie, corri seriamente il rischio di perderti o sentirti perduto. Passavo molto tempo da solo, in solitudine, e il fatto che questa fosse una condizione cercata, ma non voluta, mi procurava una sofferenza enorme.
Era in quei momenti che mi sentivo vicino alle mie fonti psichiche. Mi dicevo che forse Andrej aveva sempre vissuto questa condizione e dalla propria sfera di solitudine emetteva un lamento bellissimo, attraverso la sua opera: «Vogliono che io cambi, che segua il loro ideale di trasformazione della condizione umana. Dicono che sia facile, che è un concetto ideologico e quindi teorico, per questo mi considerano un sovversivo. Non è vero, si sbagliano.
Perché ci siano dei cambiamenti la trasformazione deve avvenire emotivamente, non intellettualmente… ti sembra che la condizione attuale dell’Unione Sovietica sia un ideale da perseguire?».
Pensavo al destino dell’artista, cacciato dalla propria patria, costretto a errare vagabondo e a comunicare, attraverso una visione diversa delle cose, la via da percorrere a chi non vi era ancora riuscito.
Cercai Andrej. Tonino mi disse che si era sentito meglio e aveva deciso di andare nell’isola di Gotland, in Svezia, a girare un film che aveva in mente da tempo.
Ricordai la gita siciliana, fatta insieme, qualche anno prima. Si passeggiava lungo la Valle dei Templi. L’aria tersa permetteva di vedere, in lontananza, le isole di Linosa e Lampedusa. Andrej aveva l’espressione malinconica. «Sei triste?», rammento ancora di avergli chiesto. E lui calmo mi aveva risposto: «No. È che quando vedo, come ora, un’isola in lontananza, provo il sentimento della nostalgia. La nostalgia per noi russi non è un’emozione leggera come la intendete voi, ma è un sentimento profondo e doloroso, che ti porta a viaggiare cercando una patria migliore. Questo però è impossibile; allora la nostalgia ti permette di avvicinarti alla sofferenza dei tuoi simili e condividerla, per compassione».
Quei discorsi mi riportavano alla relazione sentimentale che stavo vivendo con Anna, una ragazza conosciuta a Trastevere, che frequentavo da qualche tempo: una relazione dalla quale mi sentivo profondamente attratto, ma che al tempo stesso vivevo come una minaccia alla mia intimità. E forse proprio per questo rimasi folgorato nel ripetere a me stesso le parole pronunciate da Andrej al termine di quella camminata: «..L’amore è un sentimento che può essere provato ma non spiegato perché non è un concetto. Problema significa desiderio di sapere, ma per conservare la verità ci vogliono i misteri. Il mistero della vita, della morte, dell’amore».
A volte, nei momenti di solitudine, mi trovo a passeggiare nella campagna romana, immagino di avere accanto Andrej e con lui parlo di ciò che in quel momento mi sta più a cuore. Poi mi accorgo che non c’è più e che, forse, sto parlando con una parte di me che vorrebbe comunicare, ma di cui ancora non conosco la chiave interpretativa.
È allora che mi prende la nostalgia.
2.Poetica psicoanalitica
A volte dimentichiamo la nostra adolescenza e quanto l’ingresso in questo periodo della vita generi sofferenza. L’incapacità di accedere alla parola carica di senso è una questione tipica di questo periodo e sta a uno psicoanalista preparato – e non particolarmente difeso – permettere al ragazzo questo accesso.
Ci sono adolescenti e giovani adulti che lottano per soggettivarsi creativamente, non aspettando altro che di investire su nuove figure di riferimento al di fuori del nucleo famigliare.
Quando investono sullo psicanalista, formulando una domanda di aiuto, credo sia fondamentale lavorare sul preconscio, utilizzando parole che creino un ponte con le emozioni del paziente. Questo ponte tra linguaggio scambiato ed emozioni suscitate può aprire la strada alla capacità di simbolizzazione e permettere al paziente di fare esperienza della sua capacità di pensare creativamente.
Perché ci sia una comunicazione proficua è necessaria una certa fiducia reciproca; niente è tuttavia meno sicuro da stabilire con l’adolescente e il giovane adulto, sia nel primo colloquio che nei successivi, poiché la domanda di aiuto che il giovane paziente porta è spesso confusa. Egli chiede un aiuto psicologico, ma nello stesso tempo non può accettare l’aiuto dall’altro, dal momento che non riconosce a se stesso la capacità di curarsi. Nei primi incontri con il ragazzo quindi tutto è di importanza estrema e anche l’intervento dello psicanalista non può essere che complesso perché, non appena lo invita a pensare insieme a lui, attacca una sua difesa.
Appare dunque importante, nel primo incontro con l’adolescente, porsi il problema di valutare le sue capacità di pensiero poiché il nostro scambio avviene attraverso l’uso della parola. Il pensiero si trova al centro della negoziazione tra interno ed esterno e ha la funzione di rendere pubblico ciò che è intimo: l’istanza che regola questa negoziazione è il preconscio. Per questo il percorso analitico con l’adolescente e il giovane adulto è, come suggerisce Arnaldo Novelletto (2002), un continuo percorso di «negoziazione».
Con l’avvento della pubertà il ragazzo deve cessare a rendere concreto ciò che è da lui pensato, in relazione soprattutto alla rinuncia dell’Edipo. Durante l’infanzia la conclusione dell’Edipo viene rimandata a più tardi, ed è proprio quando diventa possibile la realizzazione dell’incesto e del parricidio che bisogna rinunciarvi. Questi desideri che creano turbativa si allontanano dalla coscienza ma vengono ripresi nell’attività fantasmatica, dove è possibile un investimento di queste idee senza legame con la realtà esterna.
Nel saggio “Sui due principi dell’accadere psichico” (1911) Freud spiega che una delle funzioni del pensiero è quella di separare ciò che è reale da ciò che rimane nel mondo interno. C’è un’area che è indipendente dal principio di realtà ma ubbidisce al principio di piacere, vale a dire l’area delle fantasie.
L’onnipotenza infantile in adolescenza non viene mai del tutto abbandonata, ma si ritrova e sopravvive nelle fantasticherie, quindi una parte del pensiero non si sottomette mai al principio di realtà. Durante l’infanzia, mentre lo sviluppo prosegue per ciò che riguarda lo sviluppo cognitivo, le pulsioni sessuali si comportano in un modo autoerotico e trovano così la loro soddisfazione.
La pubertà dà nuove possibilità al bambino che diventa adolescente, in particolare gli dà la possibilità di realizzare i suoi desideri edipici. Per poter accettare questa realtà senza ammalarsi, è necessario rinunciare a una quota di onnipotenza infantile.
L’avvento di ciò che Philippe Gutton (2008) ha definito «esplosione puberale» sottolinea bene la dimensione traumatica della pubertà, intesa come sopraffazione del soggetto da parte degli eccitamenti che vengono sia dall’ esterno sia dall’ interno. Nessun adolescente può evitare il periodo in cui lo scioglimento dei legami con gli oggetti idealizzati dell’infanzia libera un’enorme energia che rischia di essere distruttiva, ma questi scioglimenti sono indispensabili affinché nuovi legami possano essere realizzati.
Nell’ analisi della domanda bisogna quindi valutare se il paziente è alla ricerca di un’altra soluzione che non sia solo quella della scarica. Anche se al momento egli non è in grado di utilizzare l’oggetto, è importante valutare il desiderio dell’oggetto.
Ladame e Perret-Catipovic (1998) citano l’esempio illuminante di Amleto il quale, nel porsi il problema «essere o non essere», si angoscia sempre più ed è talmente inflazionato dai pensieri che lo riportano sempre al parricidio e all’incesto, al punto da non poter più dormire per la paura di sognare.
Sono i processi del preconscio a esercitare una inibizione della tendenza alla scarica, producendo un differimento di essa. Come precisa Freud (1915), l’inconscio intrattiene con il preconscio una serie di relazioni, lo influenza e ne è influenzato.
Fra i vari autori che hanno rivisitato e approfondito il ruolo del preconscio nella pratica psicoanalitica con gli adolescenti, l’ultimo e più autorevole è Raymond Cahn (2000). Egli destina una funzione fondamentale al preconscio e raccomanda ai colleghi di usare la massima sensibilità nel cogliere le occasioni nelle quali si dispiega il transfert. Per Chan (2004) appare fondamentale che lo psicoanalista assuma la funzione, con il suo personale lavoro immaginativo, di creare o ricostruire legami che permettano di ritrovare senso attraverso i collegamenti che egli stesso tenta di stabilire tra gli elementi portati dal paziente.
Dobbiamo essere consapevoli che quando proponiamo un percorso analitico, noi mettiamo il ragazzo in grande difficoltà. Lo invitiamo a una relazione asimmetrica per riuscire a superare la sua relazione di dipendenza dai genitori. Gli chiediamo di accettare la vicinanza di un adulto nell’osservare una condizione che vede implicato un corpo mostruoso, incestuoso e parricida. Gli chiediamo di pensare insieme a noi ciò che Gutton (2008) chiama la «bruttezza pubertaria». In definitiva gli chiediamo di tollerare la contraddizione insieme a noi e inserirla in una dimensione conflittuale.
I ragazzi hanno la tendenza a eliminare la conflittualità interna, nella speranza di eliminare il conflitto stesso. Un buon rilancio dell’adolescenza è invece garantito dall’ accettazione della contraddizione insita nella propria condizione, dalla capacità di identificarsi con gli aspetti protettivi genitoriali, immettendosi in un rapporto di affiliazione che riconosca anche una differenza generazionale. Permettere al paziente di riappropriarsi della propria storia, e consentirgli di riconoscere che l’origine della propria storia va oltre se stesso, equivale a riattivare il processo di soggettivazione.
Credo che la via per avvicinare l’adolescente e il giovane adulto con curiosità e passione al proprio mondo interno è il permettergli di pensare di poterci raggiungere, nella consapevolezza che qualcosa continuamente gli sfugge, che l’avventura continua, che la capacità di percorrere un cammino non è dovuto a una ricetta miracolosa di cui noi conserviamo il segreto.
È questa la mia poetica, il mio stile personale conquistato nel tempo, affidandomi a riferimenti in sintonia con il mio sentire, perché anche fra gli esperti di psicoanalisi ci sono soggettività e stili di vita personale e professionale molto differenti. Del resto noi non siano minimamente depositari di una qualche verità, ma solo degli intermediari che rimandano verso un altrove. Siamo degli adulti competenti che a un tratto il paziente decide di abbandonare, lungo il suo percorso.
-Bibliografia
Chan R. (1998), L’adolescente nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione, Edizioni Borla, Roma 2000.
Chan R. (2002), La fine del divano? Edizioni Borla, Roma 2004.
Cottone M. (1986), Il linguaggio dell’artista, lavoro originale.
Cottone M. (2012), “L’uso della parola col paziente adolescente”, AeP, 2, Magi, Roma.
Freud S. (1911), Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, in Opere, vol. 6, Bollati Boringhieri, Torino 1974.
Freud S. (1915), Metapsicologia, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976.
Freud S. (1919), Il perturbante, in Opere, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1977.
Gutton P. (2008), Il genio adolescente, Magi, Roma 2009.
Ladame F.; Perret-Catipovic M. (1998), Gioco, fantasmi e realtà, FrancoAngeli, Milano 2000.
Novelletto A. (1983-2006), L’adolescente. Una prospettiva psicoanalitica, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 2009.
di Maurizio Cottone- estratto da Cinema Adolescenza e Psicoanalisi, a cura di Carbone, Cottone, Eusebio, Franco Angeli, 2013