Letteratura e Psicoanalisi

La storia narrata da Fabio Cantelli Anibaldi si inquadra in un momento storico italiano particolare. Chi ha vissuto l’adolescenza in quel periodo ricorda bene il senso di straniamento, confusione, di noi ragazzi, dove la passione politica si sfaldava sempre più, diventando violenza, piombo, polvere da sparo. Il crollo delle ideologie trascinava nel baratro un’intera generazione senza più valori, ideali, maestri a cui fare riferimento. Non rimaneva che la cultura hippie, con le sue regole tossiche.
Alla fondazione della comunità io vivevo con la mia famiglia nelle campagne vicino a San Patrignano. Si vociferava di un santone che aveva messo in piedi un accampamento di hippies sbandati, nei confronti dei quali provai subito una specie di attrazione-repulsione. Da una parte i genitori che mi avvertivano “lì ci sono i drogati”, dall’ altra le mie fatiche adolescenziali, la mia condizione di dipendente affettivo -e non da sostanze-, mi portavano a fantasticare una specie di paradiso perduto situato a pochi chilometri da casa mia. Là credevo di potere, attraverso la relazione e il rapporto tra pari, ritrovare quello che non trovavo più, né all’interno, né all’esterno della famiglia: il calore, l’amore, il senso della vita.
E mentre io decidevo di andare a Roma per iniziare la mia formazione, personale e professionale, Fabio si trasferiva a San Patrignano per disintossicarsi.
Questo è un vissuto che in qualche maniera vede incrociare destini: i miei, di Cantelli e, forse, di un’intera generazione.
È con questo atteggiamento che mi sono messo di fronte al libro di Fabio, che racconta sia la sua “odissea” personale, sia un’epoca storica ben precisa. Ho pensato di ritagliarmi uno spazio dove potere dire due parole sul libro, perché le cose da dire sono tante, e Fabio ha bisogno del giusto spazio per l’intervista che seguirà. Ho quindi affrontato il libro come affrontiamo insieme all’amico Massimo Eusebio da dieci anni film d’autore, perché questo è un libro d’autore, cioè una produzione creativa. Questo è un libro che pulsa, che trasuda carne, sangue, e allora lo affronterò con il mio taglio, dovuto alla mia formazione psicoanalitica.
Come anche Cantelli scrive nel “proemio”, il libro dice sempre molto più, rispetto a quello che l’autore vuole scrivere di sé, e ogni produzione creativa sfugge sempre di mano, diventando di dominio universale. Infine specifico che, avendo da sempre detestato le cosiddette “patografie”, io parlerò del Fabio del libro, non del suo Autore.
E allora torniamo al libro. Fabio parte dalla sua adolescenza al Liceo Manzoni di Milano. Si sofferma molto sulla sua adolescenza, sul periodo adolescenziale, ne fa “filosofia”.
Ma non sappiamo nulla della sua infanzia.
Alcuni dicono che noi psicoanalisti siamo morbosi per le questioni infantili. Però la verità è che è fondamentale per noi conoscere la storia intima di una persona, per comprendere il senso, il significato, di determinate dinamiche all’interno del nucleo familiare, relazioni parentali, funzionali o disfunzionali, che preparano ad un’adolescenza che è sempre difficile ma può, a volte, diventare distruttiva.
Se in adolescenza, con lo sviluppo puberale, il processo di soggettivazione si interrompe o fallisce, l’aggressività diventa auto diretta: ne possono derivare disturbi psichici più o meno gravi e la comparsa di condotte antisociali, con fughe nelle “dipendenze”.
Relativamente al nucleo familiare, dal libro sappiamo di una madre, curiosamente non caratterizzata come gli altri personaggi. È una mamma. Prende il figlio lo porta da Muccioli, lo riprende lo riporta da Muccioli. In maniera fugace, dal libro, veniamo a sapere che Fabio ha una sorella. Il padre non viene mai nominato.
Il momento cruciale -cardine della storia- è quando Fabio, preso per l’ennesima volta da Muccioli, viene rinchiuso in uno stanzino per venti lunghissimi giorni. In questi venti giorni succede di tutto. Fabio prima supera la crisi d’ astinenza, poi tenta il suicidio senza riuscirci, infine elabora una strana fuga pensando di scagliarsi contro i ragazzi di Sanpa che gli avrebbero portato la cena la sera. Però, dopo avere stabilito il piano, durante le ore di attesa, Fabio si carica sempre più di tensione pensando a questa improbabile fuga, a questa diciamo esplosione, a questa gestione dell’aggressività che probabilmente, il libro ci dice, è sempre stata difficile per lui.
Mentre Fabio pensa a questo, e inizia ad avere prima tremori e poi convulsioni, succede qualcosa di inaspettato: egli sente una quiete mai provata prima e “si abbandona”: è una nuova nascita, e il dispiegarsi del transfert nei confronti di Muccioli.
La nuova nascita, la ri-nascita del Vero Sé, potremmo dire, va a sostituirsi ad un Falso Sé adolescenziale, costruito su una fantasia auto-generativa onnipotente.
Ipotizziamo che la dipendenza affettiva di Fabio nei confronti delle figure genitoriali diventi quindi “impossibile” nel momento in cui il corpo infantile si trasforma in corpo pubertario, le pulsioni prendono “corpo” e alterano le relazioni con le figure parentali, colorandole sempre più di impulsi intollerabili.
Continuando il nostro ragionamento, ipotizziamo che Fabio non tollerando tale dipendenza, la sposti su oggetti inanimati, quali la droga, il cibo – ricordiamoci anche il periodo anoressico – apparentemente meno angoscianti, poiché egli presuppone, onnipotentemente, di controllarli.
E nella rinascita di Fabio dal ventre di San Patrignano nasce anche il “transfert” nei confronti del volto ora bonario ora minaccioso di Muccioli. Tutto il libro è imperniato sul rapporto con Vincenzo, all’interno della “recuperata” dipendenza affettiva di Fabio.
Qua si innesta un’altra questione su cui Fabio ha riflettuto durante tutto il libro, e credo continui a riflettere ancora.
- Che tipo di relazione si crea tra un dipendente affettivo e il proprio “salvatore”?
- Tale salvatore può diventare “carnefice” se la materia rovente del transfert è mal gestita o non conosciuta?
- Tale salvatore può liberare dal sintomo attraverso metodi più o meno leciti, ma diventare poi lui stesso la “sostanza” da cui dipendere?
È commovente il ritratto che fa Fabio di Vincenzo, visto a volte come un bambino, a volte come un orco. Il Muccioli dipinto nel libro da Fabio è un Vincenzo affettivo, affettuoso, umanizzato, giustificato nelle sue debolezze, e anche “salvato” in alcune occasioni. Significativo l’episodio della cassetta registrata da Delogu, l’ex autista di Vincenzo, dove Cantelli, nella stessa maniera esposta dal figlio di Muccioli nella serie Netflix, scrive:
“Ma io, che conoscevo intimamente Vincenzo, non avevo bisogno di essere rassicurato su quello che già sapevo; che lui, pur maledicendo a destra e a manca, pur minacciando tizio e caio, era incapace anche solo di strappare una foglia da una pianta”.
Ci sono episodi del libro quale quelli del “ciocco”, oppure il racconto della maniera fredda e burocratica con cui Vincenzo comunica a Fabio la sieropositività’, che spiegano la dinamica tipica di un dipendente affettivo con un narcisista, che necessita di mantenere l’altro in uno stato di dipendenza, di controllo.
E se nel finale Fabio, sempre più scettico sul futuro “terapeutico” della comunità, ipotizza più volte di andarsene, credo che solo la morte di Vincenzo Muccioli, gli abbia permesso di lasciare definitivamente San Patrignano.
Desidero concludere questo mio breve intervento citando un passo finale, bellissimo, che esprime l’atteggiamento di ascolto profondo e non giudicante con cui Fabio Cantelli Anibaldi ha scritto il libro, atteggiamento che chiede di avere anche a noi.
“Come in tutte le cose anche nell’evoluzione di San Patrignano c’è stato un destino. Destino che è l’intrinseca giustizia delle cose, sulla quale non siamo tenuti a dare giudizi di valore. Misurare la storia in termini di decadenza è una tipica distorsione del nostro tempo: si spiega il presente col passato, con un’età dell’oro che non è mai esistita, per non sentirci responsabili, per non dare risposta a quella domanda, alla domanda del presente.”.
Rimini, 24 Ottobre 2021, alla presenza dell’autore.
Maurizio Cottone